Il teatro “bonsai” di Saverio La Ruina. Polvere che si deposita sulle vite…

la ruina, lattari

La “polvere” è la realtà offuscata.

Dicono che le vera perfezione di una pianta si esprima nella forma bonsai. Costretto nelle piccole dimensioni l’albero sviluppa le sue migliori caratteristiche all’interno di una riproduzione minimale e però perfetta.
“Polvere”,  di Saverio La Ruina -e recitato insieme a Jo Lattari che ha collaborato alla drammaturgia- ha, dunque, le caratteristiche di un bonsai, per minimalismo, durata e magica perfezione dei tempi scenici. Il tutto surrogato da un linguaggio tra il “filmico” e il fumettistico, chè in era di social e di comunicazione piatta fa si che il contenuto possa arrivare a tutti per via diretta, senza filtri o intermediazioni culturali.

Mancando di sovrastrutture, tipiche peraltro del teatro, la piéce costringe i due attori ad essere davvero “sè medesimi” quasi che il testo li ingabbiasse senza scampo all’interno di una banalità però aberrante. E la magia è che il pubblico, inizialmente sorpreso dalla “piattezza” del linguaggio (ed anche del contenuto) si renda conto solo nel corso della recitazione di essere come “rimasto indietro” rispetto allo svolgersi effettivo della storia per poi risintonizzarsi “ex-post” e trovarsi spiazzato, se non attonito.

Parlare di operazione chirurgica non è errato, considerando che l’invenzione orientale del bonsai si basa proprio sulla costrizione di una radice all’interno di un piccolo contenitore, deviandone il corso della crescita, annientandone le pretese verticali e sfidando la forza di gravità. Bonsai (seishi in giapponese) è l’arte di dare forma nel rispetto delle proporzioni naturali della pianta. E che altro è Polvere se non una forma di vita costretta ad esplicitarsi nel breve arco di 75 minuti in cui si ha l’impressione, al termine, di aver vissuto un’era più che un momento?

Perchè uscendo dallo spettacolo i 75 minuti si sono come dilatati, divenuti avventura “di due”, di una intimità irracontabile chè, solo nel momento in cui diventa “spettacolo”, assume le sembianze di una dolorosa verità.

Inconsciamente il ritmo è quello dei cartoons di una volta, sketches che si susseguono e che vanno a comporre un collage che solo nella sua visione completa restituisce la forma dolorosa di un attraversamento inderogabile.

teatro

Saverio La Ruina e Jo Lattari, ammantati di polvere..

Non è uno spettacolo lineare ma neanche ondivago; è diagrammatico piuttosto, e anche geometrico ,in quel suo “appoggiarsi”  sul pubblico per creare un non classico triangolo chè aiuta gli interpreti a dare un senso al nonsenso che stanno attraversando.

E’ una storia vera? Una storia che potremmo sentirci narrare metti… una sera a cena? Tutte le storie sono vere perchè neanche il più grande drammaturgo è in grado di superare la vita per fantasia , casualità di fatti e crudezza degli svolgimenti. Dunque, Polvere, mette in scena una vera storia che utilizza la sceneggiatura per tornare “finta” e che alla fine crea la sponda col pubblico per farla tornare nuovamente vera. E’ dunque il pubblico il “fegato” della operazione, il pubblico con le proprie reazioni che si vanno ad assommare sino a creare una sorta di alterego corale dei due in scena e senza il quale la storia tornerebbe ad essere quello che è, l’esaltazione fastidiosa della banalità del male.

I due attori, forse ignari, diventano preda della storia che li utilizza a proprio piacimento, trasportandoli all’interno di una sorta di fastidiosa perfezione di cui loro stessi si sentono preda e che forse si eviterebbero. Essere “giocati” dalla storia stessa li trasporta all’interno dell’inferno con peculiare soavità e, se non fosse per l’intermediazione del pubblico in sala, potrebbero perdersi all’infinito, nella ripetizione ossessiva che è il teatro o, come nel film “l’invenzione di Morel”, essere  immortalati e ciclicamente riproposti da una infernale macchina ideata per lasciare a futura memoria un insegnamento negativo.

(Marco Mottolese per newsfromtshirts)

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